“Sei pronto?”.
“Se riesco a capire come funziona questa roba, ci sono”.
L’espressione di compatimento del giudice di gara lo ferisce più del dovuto.
Dopo ventidue maratone e altre innumerevoli corse all’attivo in carriera, Roger non può accettare che le comuni spille da balia siano tuttora il metodo più in voga per fissare il pettorale con il numero di gara.
Detesta eseguire quell’operazione in pubblico, in mezzo alla bolgia di atleti nei pressi della linea di partenza: preferisce defilarsi con fare circospetto e nascondersi agli angoli di una strada laterale, lottando con la spilla per evitare di pungersi e di esporsi ai sorrisi di scherno degli altri partecipanti.
Conclude l’imbarazzante rituale in pochi secondi e si accorge troppo tardi della posizione finale asimmetrica del pettorale, che ora pende inequivocabilmente verso sinistra come il più classico dei quadri storti in salotto. Impreca con discrezione, incorrendo nonostante tutto nell’occhiataccia di una signora anziana appena uscita dal supermercato all’angolo.
Approfitta del suo abbigliamento per giustificare la sua velocissima fuga e si mescola ai corridori in prima fila.
“Ehi Roger, anche tu qui?” gli sibila alle spalle un ragazzo biondo alto quasi due metri, dal fisico così asciutto che dà l’impressione di volteggiare con garbo sulla propria elegante magrezza.
“Certo, come potevo mancare?” ribatte Roger.
Lo sguardo gli cade sul profilo imponente dello stadio dei Dodgers, che si staglia sullo sfondo fino a ridicolizzare la pur elevata statura del collega atleta.
“Ci sarai anche il mese prossimo a Boston?”.
“Non so, penso di sì” risponde frettolosamente Roger con un tono che punta a chiudere d’autorità la conversazione.
“Buona fortuna!”.
“A te!”.