FIL ROUGE

L’inquietante bimbo albino dagli occhi di ghiaccio recitò impassibile:
“Hai un minuto da … ora”.

ImmagineCinquantanove. Cinquantotto. Cinquantasette.
Il timer collegato ai due detonatori scandiva inesorabile la sua corsa verso lo zero cosmico, il Big Bang che avrebbe cambiato per sempre il corso della sua esistenza.La sua fronte iniziò a imperlarsi di sudore. Le palpitazioni cardiache lo lasciarono per qualche secondo con il fiato sospeso, in attesa dell’intuizione che avrebbe orientato la sua decisione.
Filo rosso o filo blu? Filo rosso o filo blu? Lo aveva sempre visto come un dilemma da manuale, uno di quegli espedienti narrativi da quattro soldi cui attingono a piene mani gli sceneggiatori di squallidi B-movies per spargere qua e là dosi di tensione posticcia.
Non poteva essere vero. Eppure lo era.

Cercò di allontanare l’angoscia e mantenere, per quanto possibile, la calma.
Si domandò come potesse essere finito in quello scantinato da film dell’orrore, con il pavimento impolverato e un alienante fascio di luce al neon puntato addosso a rendere la scelta ancora più complicata.

Cinquantuno. Cinquanta. Quarantanove.
Quarantanove come i suoi anni, di cui più di quindici trascorsi a fianco del socio che aveva fondato con lui una piccola azienda di trasporti, divenuta nel frattempo consolidata multinazionale.
Una vita da corriere. Della sera, della notte e del mattino dopo. Per quindici anni, senza sosta.
Duro lavoro uguale denaro, in un’automatica relazione di causa/effetto che non poteva lasciare spazio a pause e affetti.
Una moglie paziente, rassegnata al ruolo di comparsa che il marito le aveva recapitato e troppo stanca per restituire tutto il pacchetto al mittente.
Un figlio adolescente, cresciuto facendo “brum brum” con le riproduzioni in scala dei camion della ditta di papà a compensare l’assenza cronica del legittimo proprietario.

Quarantanove come la quota delle azioni che deteneva da quando il suo presunto amico gli aveva rilevato quel minuscolo uno per cento, sufficiente per trasformarlo in socio di minoranza.
Doveva essere “una pura formalità amministrativa”, a detta del partner: era divenuto il suo incubo peggiore.
Da quel giorno, il socio lo aveva ridicolizzato, schernito, mobbizzato, escluso da ogni scelta importante, arrivando persino a prenderlo in giro davanti ai dipendenti perché daltonico.
“Terribile, quella cravatta. Scusa, hai ragione: non potevi saperlo. Ricordami di non farti parlare con la grafica, quando dovremo rifare il catalogo”.
Nel suo caso, parlare di daltonismo sarebbe stato riduttivo. Il suo era un rarissimo disturbo in grado di combinare la protanopia (incapacità di riconoscere il rosso) e la tritanopia (impossibilità di distinguere il blu), sfociando in una pressoché totale cecità ai colori che rendeva la sua esistenza grigia. Da molteplici punti di vista.
Mesi di angherie, litigate furibonde, macchinazioni dell’amico per tenerlo fuori dal controllo dell’azienda lo avevano fiaccato, conducendolo ben oltre l’orlo di un esaurimento nervoso da stress e bile verde. E di lì giù nel baratro, fino allo sgretolamento della vita privata e a un passo dall’inevitabile divorzio.

Quaranta. Trentanove. Trentotto. Come il febbrone che si sentiva addosso.
Era daltonico, sì. Una patologia che non ti penalizza eccessivamente nella vita di tutti i giorni.
Finché non ti capita chissà come di dover scegliere, per un atroce scherzo della sorte, tra filo rosso e filo blu. E se sapessi davvero distinguerli, non saresti dilaniato dalle incertezze.

La scena che si presentava ai suoi occhi aveva un che di tragico e surreale.
Quelle che sembravano da lontano due enormi campane di vetro distanti tra loro una decina di metri ospitavano entrambe al proprio interno una sedia di metallo, imprigionata nell’involucro e circumnavigata a terra da massicce cariche di esplosivo.
Una sedia blu cui era legato il socio che lo aveva tradito, una rossa con la moglie che lo sopportava da quasi vent’anni.
Dalle due postazioni si dipanavano due grovigli intricati di fili dello stesso colore delle sedie, collegati a due detonatori separati su un tavolaccio di marmo grigio.
L’innesco con azionamento del dispositivo verso il basso gli ricordò in quegli attimi paradossali le cariche di TNT dei cartoni di Willy il Coyote.

Immagine“TNT”, pensò divagando. Il trinitrotoluene, conosciuto ai più come tritolo, aveva lo stesso nome di una delle più conosciute imprese di trasporto al mondo. Fosse stata un’azienda del settore, avrebbe saputo come comportarsi. Conoscere e sconfiggere la concorrenza era il suo pane quotidiano, da spezzare e consumare in pratiche dosi di 14 ore al giorno tutti i giorni, festivi compresi.

Le abilità di problem solving possono venire in tuo soccorso in svariate circostanze, ma non quando devi capire in meno di un minuto come salvare tua moglie e uccidere il tuo rivale.
La gestione di una condanna a morte in condizioni di stress non rientra certo tra le competenze di cui potersi vantare sul profilo Linkedin.
“Non pensare ai cartoni animati, idiota. Qui non è il tuo matrimonio ad andare in frantumi: sarà direttamente tua moglie, se non ti decidi”.
Il timer al centro del tavolo proseguiva indifferente la sua corsa verso la resa dei conti.

“Hai la possibilità di scegliere”, gli aveva detto solo pochi istanti prima il bambino in giacca e cravatta materializzatosi da chissà dove.
“Il detonatore rosso è connesso con cavi rossi alla sedia rossa dove è immobilizzata tua moglie, quello blu con cavi blu alla sedia blu del tuo socio.
È tutto molto semplice. Azionandone uno e facendo esplodere l’occupante della sedia, l’altro si disinnescherà automaticamente. Se non sceglierai entro sessanta secondi, salteranno entrambi in aria”.
“Ma io non distinguo i colori. Sono daltonico!”, ringhiò al mostriciattolo in doppio petto.
“Lo so. Sono davvero spiacente. Pensaci bene. Hai un minuto da … ora”.
Quando fu sul punto di alzarlo di peso e costringerlo a rivelargli i colori con la forza, era già svanito, lasciandolo da solo con l’inquietudine uniformante di un mondo in bianco e nero.

Ventisette. Ventisei. Venticinque.
Non restava molto tempo. Doveva inventarsi qualcosa per dipanare quella matassa.
Già, la matassa. D’istinto, provò a seguire con lo sguardo il cavetto collegato alla sedia della moglie (rosso, a quanto pare) nel suo tortuoso e aggrovigliato tragitto verso il relativo detonatore.
Le pupille si ritrovarono inconsapevolmente a ricostruirne attentamente i volteggi e gli intrecci, senza mai perdere il filo. Esatto. Non doveva perdere il filo.
I primi centimetri di cavo gli apparvero bui, indistinti, come il resto di quel magma di lapilli elettrici che scoppiettavano d’attesa in vista dell’eruzione.

Proseguendo lungo il percorso, però, iniziò a intravedere un barlume di luce, dapprima fioca, poi sempre più vivida, che sembrava illuminare il cammino guidandolo sicuro verso l’uscita del labirinto.
D’improvviso, un ammasso indefinito di ricordi ed emozioni fece irruzione nella sua mente, accompagnando ogni centimetro del viaggio.
Il primo appuntamento, la prima volta, il primo tutto di ogni momento vissuto con lei: più gli episodi si susseguivano rapidi tra le sue sinapsi, più il cavo si illuminava di un bagliore vivace, quasi accecante. Uno scintillio di un colore fulgido e lussureggiante, che non aveva mai saputo riconoscere, ma che poteva ora finalmente chiamare col suo nome.
Vedeva rosso. E non era certo sinonimo di rabbia, anzi.
Sentì il fascio di luce avvolgere ogni sua fibra, riscaldandolo di bollente gioia e confortante sicurezza.

ImmagineIl sottile filo rosso che lo univa alla moglie si stava magicamente ricomponendo sotto i suoi stessi occhi. Tutto ciò che doveva fare era lasciarsi guidare dalla chiarezza dei suoi pensieri.
Abbandonarsi finalmente all’evidenza delle sue priorità, concentrandosi su di lei e ignorando tutto ciò che in quegli anni aveva contribuito a ingarbugliare il sentiero di spine e di prese.
Per i fondelli, bien sûr!
Tutto stava prendendo forma.
Come quando rimetti insieme i pezzi di un variopinto mosaico di ricordi. E ne rammenti frammenti, incastrandoli tra loro fino a risolvere il puzzle.
Continuò ad avvolgere con lo sguardo i fili e i feeling, sbrogliando la matassa arruffata dei suoi dubbi.

Dieci. Nove. Otto. Sette.
L’arzigogolato arabesco di cavetti rossi terminò la sua corsa, illuminando il detonatore alla sua sinistra. Lo stronzetto in doppio petto non aveva tutti i torti, alla fine. È tutto molto semplice. Il tempo sottratto a chi ti ama appartiene agli altri. E viceversa. La regoletta di una roulette truccata a fin di bene. Un gioco in cui nel tuo futuro esce sempre nero, quando non sai distinguere il rosso dal blu. Se riconosci i colori, però, è un attimo.

Quattro. Tre. Due. Uno. Rien ne va plus.
Attivò l’innesco del detonatore blu alla sua destra, schiacciandolo verso il basso con tutta la sua forza.

Bum. Bum. Bum. Tre colpi sordi.
Si svegliò di soprassalto, rischiando di crollare dal letto, mentre la moglie bussava con insistenza alla porta della camera.

“Perché ti chiudi dentro quando dormi? Dobbiamo uscire. Mi allunghi la gonna rossa nell’armadio? Sempre che tu riesca a vederla, ecco”.
L’esplosione di ilarità cristallina che la investì dall’altro lato della porta la colse impreparata.

“Perché ridi?”.
“Perché sono passati vent’anni e non mi conosci. La vedo benissimo, la tua gonna rossa.
Per chi mi hai preso? Per un daltonico?”.

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