PER NON SENTIRSI SOLI

Entrò nella sua vita in un afoso pomeriggio di luglio.
Viveva da qualche settimana nei paraggi, ma non l’aveva mai degnata di attenzione: era una di quelle vicine di casa insulse che ogni tanto incroci alla finestra, ma di cui in realtà ignori bellamente l’esistenza.
Fu lei a prendere l’iniziativa, auto-invitandosi democraticamente in casa sua senza nemmeno una scusa valida solo per presentarsi e cogliere l’opportunità di studiare la preda più da vicino. Conscia della sua furbizia, orgogliosa del suo obiettivo e diabolica nel perseguirlo non appena le fosse capitata l’occasione giusta: quel giorno approfittò della porta lasciata aperta, mentre lui era in cantina, per presentarsi all’ingresso e attirarlo nella sua trappola.

ImmagineDifficile, nel loro caso, parlare di vero amore: lei era poco appariscente, inequivocabilmente bruttina e decisamente troppo piccola per lui.
A differenza di molte donne che aveva conosciuto, però, sapeva incarnare il fascino discreto del silenzio, tanto che spesso l’uomo aveva la sensazione di indirizzare a un muro i suoi soliloqui da vecchio trombone.

Avrebbe potuto liberarsene in ogni momento, ma preferì tenersela, accettando implicitamente il dubbio di un rapporto tutt’altro che disinteressato per avere in cambio un briciolo di compagnia. Con la saggezza lasciata in eredità dagli anni, aveva imparato a tarare le frequenze dei propri timpani su un’equalizzazione piatta di confortanti medi, rifuggendo le montagne russe di alti e bassi che a furia di estasi e dolori avevano perforato le sue orecchie.
Si accontentava del classico “stare insieme per non sentirsi soli”, in una soporifera ma rasserenante versione muta in cui zitti zitti si tira avanti.
Perché in fondo chi tace accontenta.

Un compromesso accettabile per un uomo facoltoso e ormai di una certa età, a condizione che i termini dell’accordo non scritto siano rispettati senza eccedere nei privilegi.
E lei aveva innegabilmente passato la misura.
Conquistata la non-belligeranza del padrone di casa e il diritto a condividere le pareti domestiche, aveva deciso di portare a termine il suo piano prosciugandolo a dovere.

Agiva di notte, attraversando furtiva la camera da letto per giungere a destinazione come una ladra professionista e operare chirurgicamente il prelievo. Si trattava di furti di ben poco conto rispetto alla disponibilità di liquidi del legittimo proprietario, ma la facevano sentire viva. Nessuna forma di cleptomania, nessuna volontà di arricchirsi alle sue spalle: la sua era un’impellenza fisica pianificata a tavolino e soddisfatta in segreto, col favore del buio.

ImmagineL’uomo si accorse delle sottrazioni troppo tardi, quando ormai il dolore divenne tale da non poter giustificare il perdono. La convivenza proseguiva e lui iniziava a portarne i segni, meditando il proposito di una vendetta definitiva che sconfinò ben presto nel malsano istinto di ucciderla.

Accadde di sabato: lei attese che la sua vittima si addormentasse per muoversi al rallentatore pregustando il colpo, lui con un occhio mezzo aperto accese la luce di scatto e la colse in flagrante.

“Puttana. Non volevo farti del male. Mi hai costretto”.
La fuga fu inutile. La raggiunse in cucina e fu su di lei. Slap. Eliminata con un colpo secco.

Rimosse il cadavere senza un’oncia di senso di colpa.
Era suo. Lei lo aveva. Punto. Ma lo aveva punto. Troppe volte.
Non gli avrebbe più succhiato il sangue. Maledetta zanzara.

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