Tom è uno come tanti.
Responsabile di una linea di produzione robotica in un’azienda tessile, lavora a tempo pieno: quattro ore al giorno. Dirige da dietro lo schermo un’orchestra di sarti umanoidi che confezionano senza sosta stoffe pregiate destinate all’esportazione.
La vocazione è un’altra, però, come spesso accade. È musicista, o almeno si definisce tale.
Ha iniziato a suonare la chitarra nel 2040, quando aveva 15 anni. Sognando di imitare lo stile di Van Halen, dinosauro della sei corde in un lontano passato, ha acquistato a novantanove centesimi l’applicazione “PlayLike” per il suo dispositivo personale: collegato allo strumento, il programma attiva un campo magnetico in grado di fargli replicare fedelmente ogni fraseggio del chitarrista scelto dal menu spostandogli fisicamente le dita sulla tastiera in acero. Divertente, per le prime due settimane, poi di una noia mortale. Come tutto, del resto.Tom si è dimenticato della musica per più di vent’anni, prima di cedere al tipico fascino del revival adolescenziale che ti fa riscoprire in età adulta un interesse sopito, illudendoti di rallentare le lancette. Non suona più uno strumento, ma ha deciso di dedicarsi con profitto all’home recording: grazie a una minuscola tastiera controller a due ottave e un software, ha già registrato nel suo studio casalingo sei album in neppure tre mesi.
I brani durano tutti cinquantanove secondi, come da nuovi dettami del mercato.
Introduzione, strofa, ritornello, finale. The end.
Tom si sente a suo modo un pioniere e ha in mente una dirompente innovazione: canzoni da diciannove secondi, simili a quelli che molti decenni prima venivano definiti jingles pubblicitari. Brani usa e getta, perfetti per una rapida condivisione e un’altrettanto immediata decomposizione. Toccata e fuga nel dimenticatoio.
L’idea gli è venuta leggendo in rete un’accattivante infografica, che senza specificare le fonti recitava: “Secondo i risultati di una ricerca statunitense, la soglia di attenzione media dei fruitori di contenuti online è scesa dai ventiquattro secondi del 2058 agli attuali diciannove”.
D’altra parte, chi riesce a dedicare a qualsiasi argomento più di mezzo minuto della propria vita, ormai? Cerchiamo di essere seri, su. Siamo nel 2063.
Tutto è come i temporali o l’influenza: passeggero. Tanto vale accomodarsi al posto del passeggero e inserire il pilota automatico, lasciandosi travolgere dalla velocità degli eventi.
Jane è la compagna di Tom. È commessa nell’unica libreria rimasta in città e nel tempo libero scrive. Litigano spesso perché lei è un’irriducibile romantica sognatrice che si ostina a scrivere ancora letteratura tradizionale e non romanzi brevi.
Dieci pagine, vi rendete conto? Dieci, noiosissime pagine.
“Chi vuoi che si accorga di te?”, la rimprovera Tom.
“Taglia. Accorcia. Sfronda. Hanno chiuso i cinema, i film più lunghi durano tre minuti e mezzo e tu speri che qualcuno legga le tue dieci pagine una in fila all’altra?”.
Tom ha ragione, dal suo punto di vista. Non si è bravi se non si è brevi.
La gente ha ben altro da fare. Un “ben altro” qualsiasi, che colma il vuoto di ore segmentate fra micro-attività e trascorse allo spioncino, concentrandosi sul buco della serratura per non aprire la porta. Giornate non alla finestra, ma alle finestre.
Lasciate aperte sulla barra degli strumenti per far passare la corrente che ti tiene al corrente di ciò che accade, o meglio sembra accadere altrove. Perché in realtà non succede mai nulla.
E la musica stessa è parte di un costante rumore di fondo che distoglie l’attenzione dall’unico elemento che duri nel tempo: il silenzio dei fatti.
Jane è stanca di ripetere meccanicamente il suo vecchio copione.
Temi triti e ritriti, detti e ribaditi da una scrittrice antiquata che si sforza ancora di indottrinare Tom con modesti risultati.
Del resto, cosa attendersi da una donna tuttora chiusa a riccio nel suo malsano desiderio di una gestazione naturale di nove mesi? Tom ha anche cercato di convincerla a sperimentare i cicli di trattamento per una gravidanza accelerata di trenta giorni, così di moda da qualche anno, ma lei non vuole sentire ragioni.
Trenta giorni. Trenta, poco più dei secondi dei suoi nuovi brani.
Trenta, come i denari che secondo Jane si erano intascati tutti i Giuda del loro tempo per vendere l’anima a un futuro senza Giudizio da scaricare in compresse.
Quella sera tornarono sull’argomento, scannandosi senza ritegno al tavolo di un ristorante Express Dinner, mentre ignoravano per la foga la fila di piatti freddi che scorrevano meccanicamente sul nastro trasportatore.
Difficile chiamarla “discussione”, certo: Jane avrebbe voluto incrociare per qualche istante lo sguardo di Tom, comprendendo dal linguaggio del corpo e dalla sua viva voce il perché di quella folle ossessione per una paternità istantanea, ma come ogni altra coppia in sala si erano ridotti a dialogare in chat uno di fronte all’altra per non “dare spettacolo”.
Le emoticons, però, quelle sì, tradivano una carica di rabbia repressa che permeava i fumi densi di aromi provenienti dalla cucina.
Un’atmosfera d’aria fritta. O aria-fretta, come i loro sterili discorsi.
Tom aveva appena inviato una faccina in lacrime, nel goffo tentativo di esibire una punta di dispiacere dietro la maschera glaciale a uso e consumo degli avventori, quando il diverbio fu interrotto dalla comparsa del conto su entrambi i dispositivi. L’intempestività della notifica colse Jane di sorpresa, facendola platealmente sbuffare: un soffio d’ira liberatorio, istintivo, per nulla eccessivo, ma sufficiente a squarciare di fastidio il religioso silenzio della famiglia al tavolo accanto, impegnata ad assaporare la preview olfattiva della specialità del giorno dal tablet del cameriere.
Tom approfittò di quell’attimo di esitazione per confermare l’addebito a tempo di record e tornare in chat, ma un’espressione di orrore lo assalì alla vista di quella piccola, ripugnante parola accanto al nome della sua compagna.
Offline. In quei pochissimi secondi, Jane si era disconnessa.
E ora lo stava fissando, il gomito appoggiato sulla tavola e il viso affondato sul palmo della mano, con un’espressione di sfida a sorreggere beffarda le sopracciglia alzate.
Tom deglutì. Non si sentiva pronto. Le aveva parlato l’ultima volta in pubblico qualche mese prima, quando lei lo aveva costretto non senza difficoltà a dirle “Buon compleanno” davanti a tutti. Erano felici, allora.
Sgranò gli occhi paralizzato rimanendo a bocca aperta per trenta, interminabili secondi.
Più lunghi di una sua canzone. O di qualsiasi loro abbraccio.
Il suo silenzio imbarazzato sembrava implorarla di ripensarci, di rinsavire da quel gesto estremo per toglierlo dall’impaccio. Lei sorrise sprezzante e si rituffò sul display.
Online, lesse Tom tirando un vistoso sospiro di sollievo.
“C’è mancato poco, stavolta”, pensò.
“Non perdiamo altro tempo. Sarò breve, come piace a te”, declamava la nuvoletta testuale sul dispositivo dell’uomo.
“OK”, fece lui laconico.
“Addio”, scrisse Jane uscendo dall’applicazione.
Ma sei veramente Bravo!
Ma grazie, Giancarlo :))